Intervista con il Presidente della federazione che raccoglie 30mila macellai italiani. Arosio ha parlato di economia della carne, di trend e valori rispetto al tema della carne sintetica, di economia autoctona che parte dal prodotto italiano, di qualità.
Volevamo fare un discorso sull’economia della carne. E lo volevamo fare con Maurizio Arosio, Presidente di Federcarni, pilastro del settore. Volevamo. Ma abbiamo fatto i conti senza l’oste, anzi il macellaio. Che nella fattispecie è proprio Arosio: altro che economia della carne! Da questa intervista vengono fuori tutti gli incroci con i grandi temi: economia, sociologia, antropologia, cultura, storia, enogastronomia… Ci vorrebbe un libro. Ma andiamo con ordine.
Al vertice di Federcarni, con una storia alle spalle legata alla professione, anzi al mestiere. A che punto siamo con la sua missione?
L’Associazione ci ha salvato da almeno due importanti fasi storiche di crisi del comparto: Anni 70 e Anni 90, senza sconti. Quando a Milano arrivarono le prime catene siamo sopravvissuti a quegli anni difficili grazie alle idee, alla passione, alla visione di alcuni colleghi che hanno capito la forza di stare insieme e vedere al di là di quello che stava accadendo. Non era facile, con molti negozi fatti fuori in men che non si dica. Sono stati anni parecchio duri: stavi lì, sulla porta del negozio, ad aspettare che entrasse qualcuno.
Per fortuna, almeno in certi posti, la qualità della grande distribuzione era quella che era, e anche la scomodità di raggiungere quei supermarket era un limite. E così, ci siamo per forza e per necessità organizzati sulla qualità, prima di tutto, ci siamo “rivisti”, abbiamo capito che bisognava andare oltre le bistecchine e le fettine che si vendevano altrove senza qualità, ma non solo, abbiamo capito cosa stesse accadendo anche nel rapporto con il consumatore e ci siamo rimessi in discussione.
La storia che salta fuori…
Non è stato facile, professionalmente, neanche per me. Anche io, storia di famiglia, ho iniziato con mio padre in un piccolo negozio della periferia di Milano, zona sud, dove inizia l’autostrada per Genova. Da uno, i negozi sono diventati due. In quella zona dove eravamo forse anche in 8, ora di macellerie ne sono rimaste 3. Da 2 anni abbiamo ceduto l’attività. Abbiamo attraversato tutti i periodi del boom degli Anni 60 e superato la crisi dovuta prima di tutto alla novità della GDO. Ma non ci siamo arresi: abbiamo riacquistato pian piano la clientela che non ha mai tradito quel tipo di rapporto lì, personale, le relazioni e l’approccio con il cliente…
Mi ricordo che andavo al Mercato della Carne di Viale Molise con mio padre, e mentre aspettavo di caricare ciò che comprava, contrattando e selezionando, ho iniziato a parlare con i colleghi, ho conosciuto gente dell’associazione, ho voluto frequentare qualche serata e vedevo quei 2 o 3 colleghi che avevano capito la situazione e avevano idee per andare avanti. L’Associazione ci ha salvato. Oggi, in confidenza, è per loro e grazie a loro che mi impegno per Federcarni. Ho un senso di gratitudine per questo gruppo, per questi amici che hanno visto i negozi in un modo diverso, che hanno cercato di cambiare le cose. E ci siamo riusciti.
Quali sono stati i punti di forza della sua presidenza, fino a qui?
La forza di ascoltare, guardare, capire e farsi guidare da chi ha visioni. Cambiare. Politicamente i nostri numeri sono inesistenti: 100mila addetti sono numeri che in politica non dicono nulla, non incidono. Quindi, cosa fai? Stringi qualche mano ma poi non si ricordano più di te, e così abbiamo capito che bisognava ricostruire l’immagine del settore per tutti. Non per merito mio, credo che ci siamo riusciti, ci siamo messi vicino ad altre persone più moderne e le abbiamo prese da esempio per fare vedere a chi è più indietro che ci sono delle possibilità.
Dalla fettina siamo passati all’involtino, poi le preparazioni, adesso il cotto: aumentano i prodotti, aumenta l’attenzione alla qualità e all’aspetto nutrizionale, c’è anche un’ottima resa, minore spreco e si accontentano più palati. Il “Progetto cotto” è iniziato nel campionato di Federcarni, diventando una delle fasi di valutazione della gara. Il brand Zanussi ci ha seguito anche nella comunicazione e da lì abbiamo visto i risultati. Stiamo facendo cultura, perché è importantissimo sapere come e cosa cuoci. Stiamo attenti alla salute della gente, aspetto che vale anche per le preparazioni.
Quali innovazioni state introducendo nel settore delle carni per rispondere alle crescenti richieste di sostenibilità e tracciabilità da parte dei consumatori?
L’elemento fondamentale è la qualità, ma è una parola d’ordine un po’ vana. Spesso la qualità è soggettiva, e deve essere uno standard. Qui abbiamo uno zircone, con tante facce: prima di tutto l’aspetto, il colore, poi la tenerezza, quindi la qualità nutrizionale, la provenienza e come viene allevato, come è stato nutrito, l’etica, il benessere animale, la macellazione fatta con i vetri invece che coi muri, per così dire meno crudele o forse più umana per quanto possibile. Insomma, le facce dello zircone lo rendono più o meno di valore. E poi la professionalità, la formazione, saper scegliere: capacità grossa sapere scegliere, si può solo avendo le basi, con la conoscenza e con la passione: questo lavoro si deve fare amando la professione.
Come si sta evolvendo il vostro modello di business in risposta ai cambiamenti nei gusti e nelle esigenze dei consumatori?
Il ruolo di una associazione è quello di essere attenti alla diversità e alle esigenze di ogni regione e luogo, non esiste un modello che va bene per tutti. Bisogna essere sempre attenti e lungimiranti attraverso i propri soci più disponibili, quelli che capisci che sono sempre un passo avanti rispetto al cambiamento. Il lavoro a Milano è diverso da quello di Napoli per fare un esempio. Come posso dirvi che in Sicilia, in controtendenza, i giovani stanno dimostrando passione e mestiere come in nessuna altra regione? Non c’è una ricetta unica nel mondo.
Sono stato alla fiera Gustus di Napoli e il Presidente mi ha spiegato della necessità di fare corsi sulle preparazioni. Poi, prendo un taxi, e il tassista mi dice: «Semplicemente vado lì, in quella piccola macelleria, perché trovo la salsiccia fresca come una volta». A Napoli ci sono ancora macellerie di 8 metri quadrati, con un macellaio e forse un garzone che lo aiuta, cose che a Milano non esistono più da 20 anni. Le cose si fanno e si cambiano dove funzionano.
Quali sono le principali sfide nella gestione quotidiana delle attività degli associati e come vanno affrontate?
Prima di tutto c’è un tema economico generale: il negozio o guadagna bene o chiude, non c’è più una via di mezzo per i costi fissi, principalmente. O lavori o non stai aperto. Il nostro grande problema è trovare le persone in questo lavoro, un mestiere che ha un’immagine complessa, una professione che è un lavoro faticoso. Per appassionare al mestiere ci siamo inventati i campionati, pensati non solo per i giovani ma anche per il passaggio di consegna fra generazione e generazione. Adesso stiamo puntando sugli under 35 e sugli over 35, con sfide a coppie.
Ma il “segreto di Pulcinella” è formare le persone, i lavoratori che non si trovano. E non abbiamo un sistema scolastico che ci permette di fare attività. Del resto, guardiamo alle scuole alberghiere. Il 3% al massimo degli iscritti ai corsi di settore (sempre sold out) escono e fanno veramente l’attività. Gli altri si disperdono. Ci vorrebbero scuole professionali che vanno ben al di là dei corsi di 900 ore, con 900 ore non impari nessun mestiere. I giovani non sono attratti da questa attività che può invece diventare remunerativa, se lavori bene.
C’è anche un aspetto di comunicazione non di secondo piano: i giovani crescono con una visione parziale del mestiere, quella più negativa, che si rifà al sacrificio degli animali. Eppure, oggi, il comparto ha guadagnato molto in questo senso: abbiamo eliminato la chimica, migliorato gli allevamenti, bandito quelli intensivi, c’è più attenzione al rispetto dell’animale.
Qual è la visione sul futuro del mercato delle carni in Italia?
Il comparto sta bene, anzi benone. Secondo le stime FAO, la richiesta di alimenti di origine animale vedrà un aumento del 30% entro il 2050%. I dati dicono anche che il consumatore è disposto a spendere di più per la qualità e la salute. Questo è sintomatico ed è importantissimo. C’è una nuova attenzione al prodotto e funzionano i negozi che si sono evoluti e diventano dei poli del fresco, che offrono anche altri prodotti complementari, spesso locali, di qualità, unici: per esempio i formaggi (non le sottilette dei colossi alimentari), con una gamma di prodotti importante.
E ci piacerebbe che accadesse anche con i vini premium (in qualche caso sta già accadendo). Soprattutto dopo la mucca pazza e anche dopo il Covid ci stiamo rendendo conto di questo cambiamento del consumatore. Quando il cibo diventa una preoccupazione e una paura, è più facile rivolgersi a una persona fisica per delegare la responsabilità della scelta. Per noi è un fattore di crescita. Per tutti una questione di cultura.
La carne sintetica fa paura al comparto?
Preoccupa perché il fenomeno industriale corrode e mangia il fenomeno artigianale, è sempre stato così per tanti prodotti alimentari, per esempio i biscotti artigianali, i pastai, i panettieri… Questa paura è un’occasione per fare riflessioni e cambiare alcune cose che ancora ci slegano da una parte di consumatori, e anche a un’immagine forzata che coinvolge i bambini che saranno i consumatori di domani.
Ci vuole un lavoro profondo di cultura sul prodotto stesso, sulle qualità nutrizionali. Riflettiamo: se questo prodotto sintetico diventasse un bene di massa per non so quanti miliardi di persone che non possono accedere a un prodotto di qualità nutrizionale? E ancora: può risolvere il problema della fame senza incidere sul clima? Poi c’è il gusto, il cibo come socialità, il Made in Italy. C’è poi il tema industriale e c’è quello di “mangiare solo per nutrirsi”. Difficile dare risposte a tutti.
Accogliamo con favore la risposta del Governo italiano che, primo in Europa, ha vietato la produzione e la commercializzazione di carne sintetica. Non è una questione politica, ma di buon senso e tutela dell’agroalimentare italiano.
Se il macellaio non si chiamasse così, sarebbe più facile?
Ci siamo interrogati spesso sulla questione, adesso si ragiona anche sulle gastro-macellerie. Ma insomma, perché demonizzare un nome che proviene dal latino macellum (che era un particolare mercato delle città romane e aveva un senso più ampio) e che rappresenta il nostro mestiere storicamente? Più che cambiare il nome, deve cambiare l’idea di questo lavoro: non c’è più solo quella parte di sangue, di “crudeltà” nelle scelte d’acquisto, ma deve esserci una consapevolezza diversa.
E le donne? Come la mettiamo in questa professione con le donne?
È una professione dove le donne hanno sempre avuto e continuano ad avere un ruolo fondamentale. Nel rinnovamento di tantissimi negozi c’è anche un’ulteriore valorizzazione delle figure femminili. Dalla mia esperienza sono le donne le migliori nelle preparazioni e nella trasformazione della carne. Come Federazione ci stiamo interrogando per affrontare nel modo giusto il tema della parità di genere. Troveremo la chiave corretta per affermare questa sensibilità: è evidente che bisogna cambiare un modo di pensare.
Photo cover: Federcarni